Ciak. Azione.
Per molto tempo mi sono detto che le fredde regioni del nord Europa, col loro clima atlantico e un elevato tasso di piovosità e di oscurità, sarebbero state le terre
più appropriate in cui abitare per uno che, come me, tende quasi sempre ad apparire poco incline all’espressione del proprio umore e alla comunicazione dei propri sentimenti verso determinate
persone, situazioni, animali, nomi, cose e città. Per anni mi sono visto abitare in una casa di legno, buia, sulla cima di un fiordo norvegese o sulla costa bretone, mentre fuori “fischiava il
vento e urlava la bufera”, con la pioggia e la notte come uniche amiche. I notturni di Chopin avrebbero conciliato il mio sonno, seppellendomi quando sarebbe giunta la mia ora, e mi sarei rifatto
gli occhi con qualche riproduzione delle notti stellate di Van Gogh.
Ma la cultura in cui si nasce, cresce e corre è un po’ come le nostre natiche, che ci rincorrono ovunque ci si rechi per il semplice fatto che – sode o cascanti che
siano – fanno e faranno parte di noi da sempre e per sempre. E io sono nato, cresciuto e ho corso a Napoli, ridente città (così si dice) affacciata sul Mediterraneo dalla mattina alla sera come
una capèra, dove – Troisi docet – il Sole, la pizza e il mandolino regnano incontrastati. Chi mi conosce esiterebbe a dire che discendo dagli antichi Celti: non supero il metro e settanta, i miei
capelli sono neri e, in estate, riguadagno – quando mi degno di farmi bagnare dal sole – quella carnagione olivastra che farebbe di me, in teoria, l’ “ideal tipo latino” (la pratica è tutt’altra
cosa). Spesso sono le note di Carosone o di qualche cantante neomelodico, e non quelle di Chopin, a riecheggiare nelle strade della mia città, e le uniche notti stellate a cui ho diritto sono
quelle che ammantano la collina di Posillipo così come l’arida schiena del “formidabil monte sterminator” Vesuvio.
Insomma, tutto questo per dire che non si sfugge alla propria cultura.
Negli ultimi anni mi sono riconosciuto molto più “europeo” e, in particolar modo, “mediterraneo” di quanto credessi. Tale presa di coscienza è avvenuta soprattutto
grazie alla lettura di autori quali Italo Calvino, Albert Camus (che ormai considero come un fratello maggiore) e Ono-dit-Biot, nonché grazie alla fondamentale visione di molteplici film e
dipinti i cui veri protagonisti erano di volta in volta l’estate, la natura, il mare, le spiagge, le passeggiate, i boschi, l’ironia, le risate, le gambe nude, la nuca di una bella ragazza, la
sua pelle morbida, abbronzata e odorosa.
In queste opere, l’atmosfera estiva s’insedia dolcemente e la ricerca del nulla assoluto, dell’ozio, sembra animare tutti i corpi. Si sonnecchia, cullati dal canto
degli uccelli sotto un cielo pervaso dalla calura, in un paesaggio sensuale dagli odori selvatici. Il vento anima lenzuola bianche appena lavate e la natura sembra invitare, ad ogni istante, al
godimento e al piacere dei sensi. I corpi, nudi o quasi, vengono esibiti per la loro semplice bellezza e le onde si dondolano sulla pelle. Al di sopra del mare, tutto è silenzio. Ma occorre non
dimenticare di gustare anche altri piaceri: mettersi a tavola ad un certo punto, in due o in parecchi, permettendo al presente d’insediarsi pian piano.
È questo e molto altro ancora ciò che mi viene in mente quando penso alla parola magica: “leggerezza”.
Mi vengono in mente certe opere della storia della letteratura e delle arti europee, luminose, verdeggianti e impressioniste.
Mi vengono in mente i film di Éric Rohmer, con Amanda Langlet che, simile a Venere Anadiomene, esce dall’acqua per andare incontro a Gaspard.
Mi viene in mente la prima lezione americana di Calvino, quella dedicata all’opposizione leggerezza-peso, in cui lo scrittore italiano sostiene le ragioni della
leggerezza, spiegando perché è stato portato a considerare la leggerezza un valore anziché un difetto: "Prendete la vita con leggerezza. Che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose
dall’alto, non avere macigni sul cuore. […] La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso. Paul Valéry ha detto: "[…] Si deve
essere leggeri come l’uccello che vola, e non come la piuma” ".
Quest’ultimo insegnamento mi riporta ad un altro autore italiano: Enrico Ianniello. Anch’egli infatti, ne La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin, ricorre ad una
similitudine ornitologica: “Noi dobbiamo fischiare di leggerezza, questo mi hai fatto pensare. Dobbiamo esse’ come a l’uccelli, che si accontentano di poco, nun se preoccupano del futuro, aprono
l’ali e volano e fischiano e tu li vedi e vulisse vulà comme a loro”.
Tuttavia, mi viene in mente anche L’Insostenibile Leggerezza dell’Essere di Kundera, che – seguendo ancora Calvino – “è in realtà un’amara constatazione
dell’Ineluttabile Pesantezza del Vivere. […] Il romanzo di Kundera ci dimostra come nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso
insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna”.
A tal proposito, io non so (ancora) come stiano effettivamente le cose, quale sia lo “stato dell’arte” in materia di leggerezza. Tuttavia, e per quanto possa
sembrare ingenua la seguente affermazione, mi sembra quasi scontato che non possa esservi leggerezza senza una certa “pesantezza”, che la leggerezza abbia ragion d’essere solo per opposizione a
ciò che la contrasta, come quando si parla del volo in opposizione alla gravità. Se così non fosse, non potremmo attribuire alla leggerezza alcun valore, positivo o negativo che sia, e
probabilmente non se ne sentirebbe più parlare. Così, a colui che mi dicesse: “Aspiro alla leggerezza, ma mi sento come un macigno. Ad ogni passo che faccio, mi ritrovo sottoterra”, io
risponderei senz’altro: “È un buon punto di partenza per aspirare alla leggerezza. Se tu ti riconoscessi già come “leggero”, non avresti nulla a cui aspirare. Oppure, se ti sentissi leggero solo
a metà, desidereresti esserlo con l’altra metà. Ma è meglio non desiderare le cose soltanto a metà, altrimenti il tuo desiderio dimezzato resterà un desiderio anziché diventare un obiettivo; ciò
vuol dire che la tua bella aspirazione si trasformerà pian piano in un rimpianto sempre più consistente, anziché divenire una gioia”. Ciò detto, il cammino verso la leggerezza potrebbe rivelarsi
più interessante e più gratificante della meta stessa…
Per quanto mi riguarda, sono principalmente quattro le attività mediante le quali cerco di inseguire questa dea alata che risponde al nome di Leggerezza: torturarmi
gli occhi e le orecchie con delle belle immagini e dei bei suoni (film, dipinti, paesaggi, musiche e colonne sonore), fischiettare, passeggiare e perseguire l’ironia (nella quale faccio rientrare
anche i miei giochi di parole).
Tali attività, che tendo a considerare quasi come delle predisposizioni naturali, mi permettono di restare fedele al bambino-osservatore curioso che sono stato, di
non tradire la mia infanzia. Nessun uomo dovrebbe mai tradire la sua infanzia; forse consiste in questo il vero elisir dell’eterna giovinezza – che fa rima con leggerezza – checché ne dicano i
sostenitori della sindrome di Peter Pan: je vous emmerde!
Per quanto concerne l’arte della promenade, non è che basti semplicemente concatenare i passi per ottenere una veridica incarnazione della leggerezza. Come la
trascrizione elusiva e diluita delle forme e dei contorni che danno un'idea precisa della magia che opera in un luogo, la passeggiata sta alla semplice marcia come l'acquerello sta alla pittura.
Il senso profondo di questa attività può essere percepito soltanto dal passeggiatore solitario, colui che cammina senza avere più scopi che mete, con l'anima che oscilla, passo dopo passo, tra il
mondo che percorre e il suo cammino interiore. Così, animato da un'attitudine distaccata e leggerissimamente disinvolta, preferibilmente con le mani che giocherellano sul fondoschiena e
fischiettando un’aria di Vladimir Cosma, questo pittore in movimento rende sfocati i contorni di ciò che scopre, per distillare la sua passeggiata in un dipinto che gli è proprio.
Affinché l'andatura si faccia arte, è essenziale ch'egli permetta alle sue intuizioni di dettare spontaneamente la direzione da prendere, senz'altra riflessione che
quella mormorata dai suoi sensi.
Un raggio di sole che fa l'occhiolino dal marciapiede opposto, un vicolo cieco inesplorato dove il vento sembra essersi perso, una strada costeggiata da case che
offrono materia ai sogni o, ancora, le note lontane di un violino maldestro che si danno alla fuga da una finestra invisibile, tutti questi elementi devono soddisfare il camminatore nello
svolgimento di questo film ch'egli offre a se stesso.
Si riconosce facilmente il debuttante dall'incedere determinato che adotta nell'incrociarvi e, se vuole tuttavia dissimulare il fatto che costui osa dedicarsi ad
un'attività non lucrativa in pieno giorno, il passeggiatore esperto si sente allora in dovere - per empatia - di far finta di credere al personaggio, facendolo cortesemente passare, soprattutto
per non ritardarlo. Fatto ciò, è importante che il camminatore esperto non si giri e che riprenda pian piano la sua andatura, perché - una volta allontanatosi di qualche piede con falcate sempre
meno ampie - il dilettante non può far altro che voltarsi, ammirato, per osservare la nonchalance in persona che se ne va.
Ecco il modo di tramandare quest'arte antica, ereditata dai pensatori scalzi dell'antichità e i cui meriti non hanno mai smesso di essere narrati dalla piuma di
coloro che vi si sono sempre rigenerati. Non vi è infatti rimedio più efficace contro la stanchezza dell'anima che lasciar dirigere il corpo, poiché - in tal modo - lo spirito può essere
posizionato come un passeggero esausto che, con la testa appoggiata al finestrino del treno che lo trasporta, non ha più altro obbligo che quello di permettere al proprio sguardo di perdersi nel
paesaggio.
Spesso è lì, alla svolta di una stradina, con lo spirito assopito nella bellezza dei paesaggi interiori, che si illuminano le idee migliori. Questo, i vecchi
passeggiatori lo sanno; questi pittori emeriti dalle tele nascoste dietro sguardi maliziosi, passeggiata dopo passeggiata, hanno penetrato a più riprese il segreto della ricetta che coniuga
piacere e semplicità. Possiamo vederli testimoniare nelle sere d'estate, soli o a piccoli grappoli, seduti su delle panchine. Mettono discretamente il tocco finale all'opera di un'intera
esistenza, posizionandosi essi stessi dentro l'acquerello.
Per quanto riguarda invece l’ironia, uno dei primi insegnamenti che ho appreso su come si può stare al mondo è quello di frequentare per l’appunto questa signora
eternamente giovane, perché – come insegna Paolo Sorrentino – l’ironia costringe a trovare il ritmo, il battito delle cose, che è quanto di più rilevante possa esservi per creare qualcosa che
abbia un interesse e che possa piacere. In altre parole, come il regista partenopeo anch’io ritengo che “ridere sia una delle ragioni decisive dello stare al mondo”.
Infine, per quanto riguarda “le belle immagini e i bei suoni” che nutrono la mente e lo spirito, sappiate soltanto che al termine di questa pandemia che ci costringe
tutti a casa voglio:
1. far colazione sull’erba con Manet e le sue modelle;
2. sedermi di fronte ad Olympia mentre la sua corpulenta serva di colore la aiuta a spogliarsi;
3. andare in barca con Claude Monet al largo di Marina Piccola a Capri, dopo essere sceso per via Krupp;
4. far visita a Renzo Arbore, che sembra abiti in un museo;
5. assistere ad un concerto dove si suonano brani di Chopin, Satie, Schumann e Vladimir Cosma;
6. passeggiare per Parigi con Raymond Queneau e farmi raccontare tutto quello che sa sulla città;
7. ritornare al museo d’Orsay e visitare il Parc des Buttes-Chaumont;
8. fare il giro della Bretagna a piedi con Amanda Langlet e andare a mangiare delle crêpes nel ristorante di suo zio;
9. trascorrere un’estate con Albert Camus nei dintorni di Algeri;
10. discutere con Louis Garrel della Nouvelle Vague e chiedergli notizie di sua moglie.
Stop. Buona la prima.
San Giorgio a Cremano, 15 aprile 2020
Disegna per me il punto d’un proiettile
saggia sarta dei colori, te ne prego:
a passi misurati come un rettile
tormento scapigliate margherite.
Esegui per me un valzer notturno
su un flauto di pastelli tumefatti.
Mentre versi lacrime di camomilla,
palpa la notte con fradice dita
le lisce tue gote vermiglie di pianto.
È il temporale de’ tuoi occhi
impiastricciati,
sempreverdi e onnipresenti lumi,
laccio emostatico del mio tormento.
Sol’essi son capaci di vedere
edifici togati d’azzurro
nel mesto grigiore dei giorni tutti
uguali.
Prestami i tuoi seni e le tue valli,
nuda Artemisia tutta anfratti e
promontori,
tutta anfratti e promontori …
Il sole spegne l’agonia dei lampioni.
Ma sulle cinque incombono le sei.
Dove diavolo sei ?
Dove Diavolo sei ?
La donna che amo, ma che non è mia
è una maestra dell’ironia,
ama il sarcasmo ed i motti sagaci
e se sei caustico forse le piaci.
Di quella bella dal timido viso
sogno la notte le forme procaci,
ma per strapparle sovente un sorriso
si brucia la lingua, poi gli animi e i cuori.
Essere caustico causa malori
però devi esser padrone dell’arte,
altrimenti ti mette da parte
e buonanotte ai pii suonatori.
La donna che amiamo, ma che non è nostra
dirigere bene sa questa giostra,
ma se le spari cruente parole
va a finire che poi te ne vuole.
Sognavo la notte le sue nudità,
ora negli occhi senza pietà
mi lancia sguardi disapprovanti:
l’ironia fa passi da giganti.
Essere caustico causa malori,
devi esser poeta e dell’arte signore,
altrimenti finisce che muori
per un semplice attacco d’amore.
- Gli è andata male la roulette russa …
- Gli è andata bene !
- Beh, certo, se voleva fallire gli è andata bene.
Io userei una pistola. Punterei alla nuca: è più
vulnerabile.[…]Quindi, sparerei.
- Ma il comico non era superiore al tragico ?
- Mi hai disarmato.
Barba rasoio e schiuma sul mento grondante sangue,
Ti vedo nello specchio, alta due piedi.
Gli occhi tuoi pieni, puliti e incantati
Non sapevano, non sanno e non sapranno,
Non hanno idea delle malefatte di questo poeta.
Volutamente lunga, così non la leggerai,
O almeno non tutta, come la lunga
Barba raschiata soltanto a metà,
Per noia o per affanno.
Gli occhi tuoi pieni, puliti e incantati
Non sapevano, non sanno e non sapranno.
Per l’eccessiva rabbia già non regge
la matita la mano, la meno maldestra.
E un impeto di furia ansimante la spezza
E la frantuma, e mille schegge di legno
E di grafite crivellano più l’anima
Che il palmo della mano maldestra, la mano destra.
Dipoi purpurei fiotti stillano
Da novantotto tagli dai contorni inchiostrati
Di blu : l’anima e il sangue non mentono.
Stuprami, o Diva : del Pelide Achille l’ira funesta
Non mi interessa. Mi occorre piuttosto che m’aiuti
Ad innalzar l’estremo canto. Nella mia penna
Fiducia infondi e falla tracotante,
Focosa de’ mezzi suoi.
Barba rasoio e schiuma sul collo reciso,
Ti vedo nelle foto, alta tre piedi.
I tuoi grandi occhi verdi, puliti e incantati
Non sapevano, non sanno e non sapranno,
Non hanno idea dell’insonnia febbrile
Che m’attanaglia le notti plenilunari.
Ti vedo, in tutte le stanze chete della Terra.
Vedo i tuoi fianchi, come colline nella Maremma
Sconquassate da un terremoto sapiente.
Vedo la tua bocca, sottile faglia
Sul fondo di un oceano popolato
Dalle mie chimere, timidi pesci in un mare vacuo.
Vedo le tue palpebre, ventagli andalusi
Dal battito gentile e pien di grazia.
Vedo la solitudine del satiro,
I diari notturni, i libri eruditi,
Il Dostoevskij rubato, la mano colpevole,
La ferrea memoria, i fantomatici archivi.
Vedo il nichilismo imperante,
I motti di spirito, le arguzie e le facezie,
L’Arte e la Matematica, l’ironia e la maieutica.
Solo non vedo te.
Barba rasoio e un colpo alla nuca.
Ti vedo nella mente, alta sei piedi.
I tuoi grandi occhi verdi, puliti e incantati
Non sapevano, non sanno, non piangeranno,
Non hanno idea della mia morte.
Corone di fiori al suo funerale,
“ Al Professore non sarebbero piaciute.
Prediligeva i Fiori del Male ”.
Ragazze che mai aveva amato
Dal mondo piangevano la sua fuga.
L’amico fedele per l’ultimo elogio
Latitante era profugo a Cuba.
Comparve su un muro
Una notte d’estate:
Vide quant’è scanzunato
Sotto a chesta notte ‘e stelle
Va girànno o’ Prufessore
S’ vo’ mettere a sunà.
Nu pensiero dint’a’capa
Na butteglia sempe ‘n mmano
Va scrivenno chiano chiano…
Di Pasquale Ambrosio riposano qui
Soltanto le spoglie mortali.
L’anima si dimena tuttora,
Insonne e senza requie.
Solo, non sappiamo bene dove.
Un notturno di Chopin la seppelirà.
PS: «A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. […] Come si dice, l'incidente è chiuso. La barca dell'amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici.» (Lettera di commiato di Vladimir Vladimirovič Majakovski).
I tuoi grandi occhi verdi,
unico conforto alla mia esistenza errabonda,
sono un vasto mare
ov’io, vascello assecondato da un gran vento,
volentieri affonderei,
precipitato nel turbinio dell’iride
da un battito della tua palpebra nericiglia,
dalla tua bocca vermiglia,
che mi fucila come un plotone d’esecuzione
ogni volta che si dischiude.
I tuoi grandi occhi verdi
sono un prato immenso e rugiadoso,
dove la mia anima s’adagia
ristorandosi al tuo pensiero,
di filo d’erba in filo d’erba,
quando la notte è carica di affanni
e il sonno,
come sempre, giunge tardi,
ostaggio di un dio malevolo.
Sono, i tuoi grandi occhi verdi,
un dedalo di strade
ininterrotte,
ove le mie suole di vento
martoriate dalla vita
s’inoltrano bramose di avventure,
quando la noia e il disprezzo
del mondo forano di colpi il petto
ed il respiro vien mancando.
I tuoi grandi occhi verdi
sono un’oasi
ove mi reco fischiando note
blu di malinconia,
tra le rotonde colline delle tue guance
e la tua fronte,
dolcemente spettinata
dal primo raggio di sole sul cuscino,
che ti culla all’alba
nelle tue chete stanze.
Sono, i tuoi grandi occhi verdi,
più belli della Luna
che si compiace, mirandosi
negli acquitrini sulle strade.
Pioggia le tue lacrime
che non hai saputo trattenere,
sono la pistola per il suicida,
la musa per il poeta,
l’ebbrezza per l’ubriaco.
I tuoi grandi occhi verdi
sono il porto
ov’io, annientato
da una realtà bestiale e disumana,
del tutto simile a un bambino
al buio, cerco tastoni
il faro che m’indichi la via.
I tuoi grandi occhi verdi …
Je suis un petit peu maudit
seulement le vendredi
je bois dans un bistrot
l’absinthe avec Nino
sur un divan de soie
les jambes chacune pour soi.
La nuit bas à Paris,
de Saint-Exupéry,
je joue de la poésie
de la mélancolie.
L' âme qui va sans dire,
les fleurs maladives,
j'invoque la fée verte
ma braguette bien ouverte.
Les femmes tout autour
veulent me battre à tour
car ma main perverse
la poitrine nue traverse.
Arrêtez, je vous en prie
pour l’amour de Marie,
un ivre littéraire
à la morale par terre
c’est la faute à Baudelaire,
Rimbaud, Villon, Verlaine
et tous les autres poètes
qui frappent à ma fenêtre.
Dovremmo forse farla finita
e fare ognuno com gli conviene.
Dal monte Elicona Melete e Mneme
non possono fare discesa e fatica
mille e più volte per te, quando invoco,
perché mi diano versi di fuoco.
Dovremmo forse farla finita
senza accampare un mucchio di scuse.
Rime elargiscono in punta di dita
– ci mancherebbe, son delle Muse ! –
sapendo che a te sono poi indirizzate
sfiorando la lira, mi sembran deluse.
Saranno forse un po’ imbarazzate
nel tradir Venere Anadioméne,
di cui ne’ miei versi assumevi ben bene
le forme procaci e non solo quelle …
Dovremmo forse farla finita
col chiaro di luna, la notte e le stelle
e questa posa da poetastri mal detti
che dai concorsi ci rende interdetti.
Per te più non saranno i pensieri delle sere,
non arde più il mellifluo nel mio grigio braciere.
Le melodie smielate, se vuoi , puoi tenere.
Dovremmo forse farla finita
col mondo classico ed i paroloni,
con la misura e la forma tornita,
l’afflato romantico, gli aedi e i pastori,
il cielo che piange, la rima perfetta,
la metrica e il suono da mezza calzetta.
Dovremmo forse farla finita
con i poeti d’alto lignaggio.
Dovremmo forse trovare il coraggio
di leggere insieme alle tamerici
della pregnante frittura di alici.
Ormai m’è indigesto, più delle verdure,
un qualsiasi “ Tityre, tu patulae …”
Dovremmo forse farla finita,
con me, con te, il Maestro e Margherita.
Il loro amore fedele ed eterno,
il diavolo, Mosca, le fiamme, l’inferno,
i libri, la critica, i gatti, le rose.
Non van così nella vita le cose.
Dovremmo forse farla finita
con questa sindrome di Stendhal,
l’incedere estatico da femme fatale
che invano mi priva del fiato e del sonno.
M’è dato vederti una volta l’anno
ed ora non credo che ciò sia un gran danno.
Dovremmo forse farla finita
con le invettive contro Morfeo,
con Euridice, con Ade ed Orfeo,
le notti insonni a mirare il soffitto,
Cupido, le frecce ed il cuore trafitto.
Con la Norvegia, i suoi flutti ed i fiordi,
l’anima in pena, i violini, i ricordi.
Dovremmo forse farla finita
di farci gli auguri nei giorni speciali
restando a distanze così siderali,
tacendo più spesso di quanto si crede,
sapendo più cose di quanto si vede.
Dovremmo forse farla finita
con questa povera misera vita ?
O forse dovremmo soltanto tornare
a declamare più che mai mute
gesta d’eroi di retorica nude ?
Dovremmo forse farla finita
d’innamorarci di donna tale
che dopo dieci anni somiglia a un maiale,
mentr’io scanzonato nel mio gran castello
divento sempre più bello, più bello, più bello…
Dovremmo forse farla finita
di pensare e guardare una sola,
quantunque abbia i fianchi rotondi.
Dovremmo forse guardare in avanti
gli oceani son vasti, gli abissi profondi
e i pesci nel mare son poi così tanti …
Divinità notturna è Morfeo, a me nefasta.
Un dì esordì gridando “ Basta ! ”.
“ Basta con queste Muse, mandate nude in sogno
in bianco e nero, tre Grazie con facce serafiche
e pose pornografiche.
Codesto è di Canova un gran pornazzo,
non è mica di Fellini un Otto e mezzo ! ”
“ Un otto e un cazzo ! ”, io di rimando.
Le passerelle oniriche a me restituisci
– io ti comando ! –
pur diffeomorfe ad un triangolo scaleno,
di te Morfeo più ormai non sono fiero.
L’insonnia a cui mi forzi senza posa
svilisce il verso e lo converte in prosa.
Ma il Tempo, tuo compare, dovrò pure ingannare,
e allor di notte veglio e desto, compongo sciocchezze,
alquanto maldestro.
Ma delle nude Muse è anche l’uccello,
che quando di batter l’ali è stanco,
diventa più potente col suo canto.
A nulla mi varranno camomille, a nulla le tisane
e tutte quelle robe strane
che i luminari, da tre lustri sconosciuti,
prescrivono agli insonni ad essi pervenuti.
Eroica medicina
è vino a fiotti, e stordimento,
nell’attesa che questa rapsodia
mi porti via, mi porta via, mi porti via …
Giudicheranno queste nugae “ per intervalla insaniae ”
– analfabeti, gente che non ha rapporti con le Muse –
tremendo delirio notturno.
Uomo di pochi versi, poetastro taciturno,
non cercate da me il parto d’un poema
d’alto frastuono:
tuonar non è da me, tocca a Giove Pluvio !
Con l’arte misurate la bravura,
non con il metro.
Detesto il poema infinito, farcito con rime perfette.
La strada carica di folla, di qua di là, non mi diverte.
E’ repellente il bello che sfarfalla troppo,
mi dà la nausea ogni fronzolo barocco.
Per battagliare allor contro l’insonnia
leggo di Caio Cesare l’opera omnia,
ma il mio cretin vicino,
incolto e un po’ burocrate,
mi ha consigliato l’opera di Socrate …
Morfeo, metà del cuore ancor mi batte.
Metà … Non so se l’Arte me l’ha rapinato
o il Nulla. Certo non è qui.
Che bazzichi nel gruppo di quelle belle? Mah !
L’ ho proibito tante volte :
“ Muse, non nascondete tra di voi quell’evaso ! ”
Scacciatelo a pedate nel culo, per cortesia,
nell’attesa che questa rapsodia
lo porti via, lo porti via, lo porti via …
Allora andiamo, tu ed io ,
in questa notte dipinta da un folle Van Gogh,
d’ombre ammantata e di rade stelle adorna,
pallida e mesta, sotto il Cielo blu triste
che il Lampo silenzioso irride e squarcia.
Andiamo, tu ed io.
Nel tumulto di foglie striscianti e decadute,
degli alberi anoressici rigetti vorticosi.
Mai le riporrà sul trono antico Baionetta.
Allora andiamo, tu ed io,
battendo i prati nuovi che coprono le strade
ove esse, nell’aere turbinando,
alfine al suol s’adagiano sconfitte.
Nelle pozze ove si tace e specchia l’acqua del Cielo,
anima fatta bella dal suo pianto.
Lungo i ponti di lucide pietre
e sovra i fiumi ove naviga il battello
di Rimbaud, ebbro d’assenzio.
Andiamo, tu ed io,
sotto i portici proibiti ove si pestano gli amanti,
derisi da un Dicembre algido e baro
il Fato vietò a noi la Primavera.
E mentre andiamo, nell’incedere folate
di Chopin da una finestra spiran sovra i tetti ,
e sotto l’aria de’ lampioni tumefatti
il turbinio di note stupra i sensi allucinati.
Allora andiamo, tu ed io,
già che in calorose stanze
agevol sonno a noi non giunge,
ma furibondi di molesti affanni e duri
la notte calpestiam gl’umidi asfalti
a gentil passi, incerti e insonni.
Andiamo, ove la sera s’asconde meschina
e tremante, per tremebondi venti
d’impeto voraci e poi d’assalto.
In vie innevate e gelide scoviamola,
ove inneggiano stecchiti e tardi i rami
alla vittoria del dittatore Inverno.
E poi ? Dormiamo per le strade,
sui valzer delle luci intermittenti,
sull’eco di lontano dei violini singhiozzanti,
di noi febbricitanti ricoperti, e di più nulla.
Dormiamo.
Sarà la nostra alcova
la capitale onirica del Regno Senza Tempo,
ove notturno ed esile con noi passeggi il Vento
nella penombra estatica del sonno che stordisce,
e sbeffeggiando i fiori
che di purpureo inondano le piazze
sarà per noi la Terra un luogo meno triste.
Allora sogniamo, tu ed io,
in questa coltre stregata da un magico Freud,
sotto il Cielo cobalto
che lampi silenziosi più non conosce,
ma piroette di stelle caudate e fuochi di camini.
E mentre sogniamo, ridiamo insieme,
tu ed io,
chiedendo senza fiato
quante rose coglieremo
per narrare questa notte
nel giardino maledetto di Baudelaire.
A Georges Brassens
Vivevo assai lontano dal pubblico terreno,
pensando tenebroso, bucolico e sereno,
senza pagar la gloria, come si suole in giro,
nella mia tor d’avorio dormivo come un ghiro.
Ma le genti assennate mi fanno realizzare
che al cittadin comune ho conti da pagare,
e che per non cadere in un totale oblio,
al sole metter devo adesso ogni fatto mio.
Trombette della fama
mal suonate,
voi siete sì tanto stonate!
Privato del pudore, quello meno esecrando,
per la pubblicità, dovrò partir narrando
e divulgar con chi e in quale posizione
mi immergo nello stupro e la fornicazione?
Se pubblico dei nomi, di virtù donne vestute
di colpo passeranno per degne prostitute?
E quanti buoni amici mi taglieran la gola?
E quanti colpi ancora avrò, nel petto, di pistola ?
Trombette della fama
mal suonate,
voi siete sì tanto stonate!
Repelle a mia natura qualunque esibizione,
essendo la modestia la mia consolazione.
Di me non mostro mai gli organi procreatori,
ma faccio un’eccezione per le dame e i miei dottori.
Per far parlar di me con scandali banali,
dovrei forse suonar strumenti genitali ?
Dovrei forse mostrarli più manifestamente,
come un bambin del coro che non indossa niente?
Trombette della fama
mal suonate,
voi siete sì tanto stonate!
Una dama del mondo, che spesso e volentieri
mi lascia far cosucce nei suoi oscuri quartieri,
m’ha trasmesso, con noblesse, sul divano della zia
i parassiti del lignaggio più basso che vi sia …
Avrei fors’io il diritto d’infangare il suo nome,
avendo sì il pretesto di fare un po’ rumore
gridando su dai tetti, con un linguaggio schivo:
“ Madama la marchesa non ha il preservativo! ”
Trombette della fama
mal suonate,
voi siete sì tanto stonate!
Ed ho una buona intesa – il cielo sia lodato ! –
con fra’ Nicola il prete, dall’animo dannato.
Lui mi fa catechismo, ed io del terrorismo:
gli faccio dire “amen”, se mi fa dire “Cristo !”.
Dovrei forse narrar sulla nostra gazzetta
che lo sorpresi un dì con la mia nobiletta,
cantar la melodia con voce assai da amante,
mentr’ella gli frugava l’affar nelle mutande?
Trombette della fama
mal suonate,
voi siete sì tanto stonate!
Con chi conviene allora che io nel letto fiocchi,
per far parlare un po’ la dea con cento occhi ?
Venga tra le mie mani a togliermi la penna
una donna formosa e che nel letto impenna.
Chi è che vuol prestarmi i suoi glutei a pie’ pari,
per eccitar la gente ed i follicolari ?
Chi è che mi fa fare, spargendo della cenere,
un po’ di alpinismo sul suo monte di Venere?
Trombette della fama
mal suonate,
voi siete sì tanto stonate!
Se avessi, come gli altri, forate le chiappette,
più forte suonerebbero queste divin trombette,
se anch’io scuotessi i fianchi come una gran donzella
e di colpo assumessi l’aspetto di gazzella?
Ma io non so a chi giovi tutto questo fracasso:
giocare a far l’amore, senza poi usare il ca***.
Non so se vada a gloria mia o di Belzebù,
ma fare il pederasta oggi non paga più.
Trombette della fama
mal suonate,
voi siete sì tanto stonate!
Dopo questo gran giro di mille e più ricette,
che valgono sicuro gli onor delle gazzette,
resto contemplativo, nei miei modi diversi,
grattandomi la testa per partorir dei versi.
Se il pubblico ne vuole, li posso cacciar fuori,
se non ne vuole affatto, che il pubblico mi ignori.
Senza pagar la gloria, come si suole in giro,
nella mia tor d’avorio m’addormento come un ghiro.
Trombette della fama
mal suonate,
voi siete sì tanto stonate!
Le tette di costei che adesso in treno mi sta innanzi
agli occhi compiacenti senza freno fan sobbalzi,
e senza biancheria qual fosse la fanciul pudica
i frutti suoi indifesi copre col gilet a fatica.
La bella smaliziata aveva già però previsto
che gli occhi avrei gettato sul suo bel seno sprovvisto,
e di ciò ravvedutasi, col suo braccio perfetto,
copre il balcone vasto e liscio senza reggipetto.
Le tette di costei che adesso in treno mi sta innanzi
continuan senza posa ad agitarsi pei sobbalzi,
e al mio ghigno beffardo da perverso simulato
mi avrà considerato di sicuro un depravato.
Ma poi replica al ghigno con un riso assai beato
e mi trasformo per la fantasia nel suo corsetto,
e con mia gran sorpresa lascia il seno denudato
ed io la fascio stretta dalla vita infin sul petto.
Meglio di un don Giovanni od un novello Casanova
infilo la mia testa nella sua florida aiuola,
e senza stillar goccia alcuna o lago di sudore
agli altri lascio bene il gran mestier di seduttore.
Al terminar de’ vortici di favolose danze
di notte un fine fior di letterato,
tornando mestamente alle sue oscure stanze,
d’un tratto si sentì privar del fiato.
Lasciata la platea con tante riverenze,
qual fosse un gentiluomo troppo ingrato,
scappò correndo ratto alle sue residenze,
ma a noi pareva alquanto rattristato.
Per consentire all’aria di ristorargli il petto
slacciò sul collo il nero cravattino,
ma andava con incedere imperfetto,
l’incedere imperfetto di uno in crisi di respiro.
Al terminar de’ vortici di favolose danze
di notte un fine fior di letterato,
tornando mestamente alle sue oscure stanze,
d’un tratto si sentì privar del fiato.
Mentr’egli raggiungeva d’avorio la sua torre,
di quelli che incontrava sul cammino,
soleva lusingar solo le donne
per guardar sotto le gonne di costoro, sbarazzino.
Stimandone dappòco già molte o quasi tutte,
aveva elaborato un proprio credo:
che per merito loro, prima d’esser distrutte
le palle han forma di dodecaedro.
Al terminar de’ vortici di favolose danze
di notte un fine fior di letterato,
tornando meno mesto alle sue oscure stanze,
d’un tratto passò poi per depravato.
Ma quando riconobbe nel suo girar notturno
quell’unica regina del suo cuore,
d’un colpo ridivenne taciturno,
essendosi imbattuto in colei che non lo vuole.
Le orecchie tintinnando lo fecero star male,
e il suo sbigottimento fu total.
Venne ricoverato all’ospedale,
affetto da un’acuta sindrome di Stendhal.
Al terminar de’ vortici di favolose sbronze
di notte un appassito letterato,
bevendo allegramente con due stronze,
d’un tratto perse il senno, il portafogli e pure il fiato.
« Seguimi, lettore ! Sia recisa la lingua infame
al mentitore che ha negato l'esistenza di un
amore autentico, fedele ed eterno sulla terra! »
Quando le stelle usciranno discrete
dai loro nascondigli diurni
e simili a lanterne accenderanno
il cielo blu cobalto, tu nuda
devota al tuo Maestro volerai.
Salvare lui dall’ultimo torpore
che lo avvinghia in questa coltre
onirica e stellata assai ti preme.
Ben sai, fulva regina, qual pena
e la pazzia che il tuo Maestro opprime:
il sonno della ragione genera mostri.
Ma tu, in questa notte affollata
di demoni e timide luci fasciate
di nebbia, le labbra poserai
sulla sua bianca fronte, fremendo.
Quando il sole ci ferirà gli occhi
e torneranno le stelle a celarsi,
dopo il triplice canto del gallo
sarà ‘l tuo Maestro tre volte più vivo.
È un fatto, e i fatti sono
la cosa più ostinata di questo mondo:
i manoscritti non bruciano.
Da una verde panchina, ridicolo putto,
tu quella mattina, ubriaco del tutto,
un dardo hai scagliato nel cuore sbagliato,
nel pubblico parco col viale alberato.
Ivi c’eran le mamme con i carrozzini,
civette e guardiani, anziani e bambini,
ma tu per la fretta, distratto da una tetta,
feristi il sottoscritto con la tua mira imperfetta.
Ridicolo putto, arciere mancato,
per quanto sei brutto, sgraziato e drogato,
sì a te, proprio a te, tiratore menomato,
farei in faccia un rutto che percuota il vicinato.
Ma sarebbe poca pena per il danno che hai recato,
barcollante angelo infermo con il tuo braccio mal fermo,
io ti prenderei a mazzate su quell’ali spiegazzate,
per quanti danni hai fatto con i tuoi dardi spuntati:
per colpa tua la rana e il ragno si sono innamorati.
Tu sei di vista miope, questo è un vero peccato:
ciò ha reso il tuo proposito piuttosto sfortunato.
Sarà questa la cagion per cui sarò sempre nervoso:
gli occhiali che non porti ti fan spesso rovinoso.
Che forse la tua mamma, la più bella dell’Olimpo,
si sia distratta un attimo nel concepire il bimbo?
Ma credo io che un figlio così tanto sprovveduto
poteva averlo Venere soltanto da un eunuco.
Oh dolce principessa del mio cuore sii signora
e pensa sempre a me ovunque vada almeno ogn’ora.
Fa’ pure ch’io sia sempre almeno un poco nei pensieri
della tua bella testa e pure ne’ tuoi desideri.
Lo so che il postular sì tanta grazia forse è vano:
mentre sto a vaneggiar comodamente sul divano,
tu forse ti fai buffe beffe della mia vergogna
e con un altro mediti di mettermi le corna.
Se questo fosse il caso avrebbe vinto la scommessa
l’amico che dicevami che tu sei una gran cessa.
Però se a dire il vero i’ son forzato, allor lo dico,
se ho le corna è colpa del Secondo Federico,
quello a cui è intitolata quest’università
che mi sottrae del tempo che poi indietro non ridà.
Ma se tu principessa fossi fedele e pudica,
felice io sarei di essere tuo duca,
purché questa mia piccola speranza non sia vana:
che tu sia per me tutto, fuorché una gran putt***.
Tralalà-la-la-la-la …
I tuoi mille spasimanti
– sì ne sono così tanti –
han cercato in tutti i modi
di sciogliere i tuoi nodi.
Ci han provato gli strafatti
con il luppolo nel senno,
ma la strenua resistenza
fa far loro penitenza:
oh che fior di decenza, questa donna d’esperienza!
Ci ha provato sì l’istrione
col suo inglese smantellato,
ma è passato per coglione,
mentecatto e menomato.
E anche d’oltralpe i franchi cugini
li hai stimati dei bambini,
mentre tu diciannovenne
coi tuoi tacchi impenitente,
te ne vai tutta perfetta
ritornando alla casetta.
Ci han provato in tutti i modi
questi mille menomati
– sì ne sono cosi tanti
ad averti lì davanti,
a sbavar come poppanti, questi mille lestofanti – .
Scegline uno che degno ti sia
in questa nobile signoria,
son tutti galanti, ne sono sicuro,
e ognuno di essi è uguale a nessuno.
I tuoi mille spasimanti
– sì ne sono così tanti –
han cercato in tutti i modi
di sciogliere i tuoi nodi.
E mentre regina sul trono ti siedi
mille furfanti ti cadono ai piedi.
Dannato tu Morfeo, guardami bene in viso,
tienimi bene in mente, ti sono forse inviso?
Perché tu ogni notte dormire non mi fai
e il sonno a me non mandi, non mandi proprio mai?
Eppure sono esausto, stanco del tuo livore,
perché tu a me non cedi celermente il tuo torpore?
Qualcosa forse ho fatto di sbagliato, me tapino,
se sei sì tanto irato, strafottente e sbarazzino.
La notte a farmi visita giammai tu non ti rechi
e per un po’ di sonno vuoi financo che ti preghi.
E quando alfine giungi insieme alla tua corte,
mi cogli impreparato mezzo stufo nella coltre.
Si è pur già fatto tardi per certi sogni belli,
vattela a pia n'dercùl tu, le tue dame e i menestrelli.
Se un dì, volesse il cielo, ci riconcilieremo,
insieme a Freud patetici nel sonno parleremo,
ma prima a me verrai per chiedermi sì scusa
e per mandarmi in sogno finalmente la mia Musa.
I freddi flutti
dei fiordi di Norvegia
sferzano a sangue
l'anima mia
con melanconica
asincronia.
Simili ai pugnali del passato
le forti folate
del vento vorace,
dimentiche del mio viso,
dischiudono il tuo sorriso.
La memoria malvagia
mendace talora mi porta
a ragionar di te
ovunque il passo io posi.
E la terra perterrita
tremando saluta
la piccola anima smarrita
vagante e soave.
“ Ti dono questi versi, perché se un giorno
il mio nome approderà felicemente alle
epoche lontane e farà sognare qualche sera
i cervelli degli uomini, vascello assecondato
da un gran vento, il ricordo di te, pari alle
vaghe favole, affatichi il lettore come un
timpano, e resti appeso come un fraterno
e mistico anello alle mie rime altere …”
Tutte !
Tutte tu le fai infuriar
le dee dell’Olimpo, tutte !
Quelle cotali, ora distrutte,
non più beate al nome tuo
sfoggiano un tal pallore,
mentre tu, più bella di tutte,
come Venere che nasce dal mare, sei accolta dall’Ore.
E tutti, tutti tu vagheggiar li fai,
e i divini e i mortali
e i poeti e i maiali,
i beati ed i tristi,
gli scienziati e gli artisti
che nei teatri, colpa tua,
stan muti. Poveri cristi !
Marte Guerriero, dall’animo freddo,
sentendo di lontano il tuo nome ,
fa chiudere tutte le porte del Cuore,
ma prima che esse vengan distrutte,
si vede che le gambe gli tremano tutte.
E anche Venere al tuo cospetto
incede dimessa col capo sul petto,
e per la batosta e la dignità offesa
tien basso lo sguardo e mostrasi tesa.
E Giove immortale , il lancia saette
le zolle che calpesti già fe’ benedette
per la tua beltà, e tutto sgomento,
per il tormento,
ha l’anima in pena e tienesi il mento.
E Dante e ser Francesco e Cavalcanti,
e come loro tanti,
se visto t’avessero, sarebbe Beatrice,
insieme con Laura e qualche altra toscana,
di sicuro passata alla Storia, ma per una puttana.
E per te, in un inverno romano che sarebbe morto sì,
ma assai dolcemente,
Gabriele, ad Andrea quel demente,
avrebbe fatto allestire una stanza odorosa,
non per Elena, brutta smorfiosa.
Venga tu dal cielo o dall’inferno, che importa
se il tuo occhio e sorriso, se il tuo piede,
aprono per me la porta di un Infinito adorato
che non ho mai conosciuto ?
Chi lo sa , chissà chi …
Fatto sta che, citando Beaudelaire,
io mi fermo qui.
Oh Muse del cielo, siate pietose
con un poetastro intriso di prose,
e se colui che scrive vi sta un poco a cuore
sapete che fare,
donne ch’avete intelletto d’amore.
Notturni andirivieni sui tuoi viali ampi e vuoti
- fanno pena ai lungosenna illuminati -
votati ad aviatori senza gloria e pensatori
senza scienza, al trotto d’una consapevole coscienza.
Ci squadrano con diffidenza i nuovi finti marmi inospitali
già sciupati ,
e i roseti di ville nuove, sempre covo di drogati
-tieni ‘na sigaretta ?-
E nuove moschee, ma senza cupole
ove danzano, tra casupole,
vacche, con ventri senza veli,
al fumo di narghilè affatto esotici.
Eccoli i tuoi narcotici.
Municipio mai vecchio e mai spento,
scenografia notturna, perfetta e marcia dentro,
di una pièce senza sipario:
città, l’oblio non può metterti al suo riparo.
E fontane zampillano rievocando
i fasti di un antico niente.
Tal quale il vanto vano di cellulosa alessandrino,
la biblioteca comunale, ove a fare da mastino
vi era un Pulcinella di bronzo, sbronzo e sciagurato:
qui la cultura si ruba, le telecamere non hanno mai funzionato.
E poi ?
Eccovi tornati !
Esploratori del mondo, messi inviati da un pascià orientale,
devo esser disonesto: senza voi, qui, si vive proprio male.
Bentornata gente pazza!
Uomini e donne, voi non vivete se brucia la piazza!
- Era meglio quando c’era la rotonda -
Rieccovi a casa gentaglia immonda!
Signori e signore in mutande e canotta
sull’autostrade voi fate la lotta
per tornare a ripopolare questa vetusta mia solitudine
con borse cariche di salsedine
e nevi alpestri, ma nervi a pezzi.
Straripano le vostre auto di bici e tavole da surf,
sono la parodia della vostra pelle, ora d’ebano: un maledetto bluff.
Eccovi cortigiane ! Eccovi pescatori di telline !
No, non avete dimenticato
di mettere le vostre bucce d’arancia nella borsa del ritorno:
ne farete bella mostra – mostri – nelle prime sere di settembre,
con tacchi a spillo e mocassini come contorno.
Farete senz’altro strage di cuori e di astanti,
oh voi, discoboli di Mirone e menadi danzanti.
Sì voi baccanti, voi Veneri
– che io non vi veneri ! –
forti delle vostre estive danze al fuoco dei falò,
sulle spiagge bagnate dai mari di Heineken, al largo del golfo di Beck’s,
dove si mangia, si beve e si balla.
Ci mostrerete le vostre fattezze da sogliole o pesci palla,
ma ugualmente cozze di scoglio, amerete
- con finto orgoglio -
i fuscelli d’olivo e i manici di scopa.
Amerete ?
Eccoti gioventù del loco!
Ridi di gusto! Questa è la città dei sorrisi: vi è nato Troisi !
Ripopola gli chalet come fossero bistrot parigini,
bettole prima chiuse, per desolazione più che per ferie.
Mostrino ora gli spazi aperti, le verande e i tavolini,
vi si preparino cocktail scaccia-ricordi, sfonda-cranio, schiaccia-vite
per questi vespasiani viventi, toilettes e latrine.
E se il parlar mio all’orecchio un po’ vi stride
pensate che ho perso la mia prof di Lettere Latine
- e con essa il mos maiorum - .
Da dire ormai da noi
non è più nulla.
Né a te, dolce e incantevole fanciulla,
né a te, giovane imberbe di speranze belle.
Or questo foglio che sì muto
io mestamente vo’ imbrattando
lascio a voi quale estremo testamento,
dacché l’inchiostro e la piuma
su cui fo’ affidamento,
non più oltre meco correranno
sulle vaste praterie
del papiro immacolato.
Non più ispirato
pagine bianche da ora a noi prescrisse il Fato.
Le Muse irate alla mia penna
imposero un divieto duro:
che ogni foglio su cui la adagiassi
rimanesse bianco puro.
Or questa lattea pergamena
che alla Parola immolo
a salutar m’appresto:
per scrivere abbiamo ormai
bruciato ogni pretesto.
Rapida e senza posa non più seguiterai
la prosa che raccendevan gli idoli di tua fantasia;
anzi, queste reliquie estreme,
verbose e parolaie,
al mondo lasci.
Prima
tutto era un
“mi concedo”,
ora
mi congelo,
mi congedo.
Or trova requie nel sonno della ragion
quest’estro senza più diletto.
Se ne va sotto la coltre.
La penna non seguiterà più oltre.
Declama poesie mute
e di nobili gesta talora si nutre,
ma alternando ai sollazzi di ieri
rime blasfeme alla Cecco Angiolieri.
Declama poesie mute
maledicendo il sangue di lor semenza,
tra un verbo aulico e una scemenza
ei si diverte scoprendo che ceci
fa rima con “bella eticità dei Greci”.
Che se in passato eri uomo bello,
eri buono un eroe, oggi un fotomodello.
Di essi insomma il pregiudizio è già noto:
c’è poco da fare, di bontà tu se’ vôto
se sei zoppo, cieco e bruto.
Ma se d’Europa la Grecia è la culla
ei scopre il vero in una bella e dolce fanciulla,
che de’ Greci magari non è parente,
ma per fortuna è buona e anche paziente.
Declama poesie mute
che paion di senso vuote
e di retorica nude,
probabilmente sa che le nugae
mai non invecchian, non hanno le rughe.
E tutto il dì medita inoltre
che se stato fosse poeta di corte,
trovator provenzale d’ estro sopraffino
e dotto canzoniere in francese e latino,
non si sarebbe asservito a chiunque col cuore,
ma avrebbe accettato per solo signore
la magnanima e bella e dolce fanciulla,
onde in tutto gradirle e in tutto servirla,
e starle vicino, e più nulla e più nulla:
solo gradirla e servirla e sentirla.
Ma, ahi lui « aux armes citoyens »,
Molière non è, né La Fontaine.
Declama poesie mute
rinnegando le verità crude
che gli rendon la vita meno regale:
sarà tutta colpa di quel suo segno zodiacale,
nell’inventar di mente celere,
o del Sole che entra in Venere.
Ma io credo che in quanto diva
Venere bella un po’ se la tira,
E il Sole infuriato in lei non entrato,
penso che il culo nemmeno le abbia toccato.
Declama poesie mute
a metà tra il serio, il faceto e la burla,
ma non potendovi dire più nulla,
rendendovi mille grazie profuse
e accampando un mucchio di scuse,
spera non lo lascino solo almeno le Muse.